sabato 28 luglio 2012

Morrissey, la banda Fratelli e il sacco di Firenze

Ogni anno, suppergiù in questo periodo, si verifica un fenomeno con cadenza misteriosamente regolare: mia sorella compie gli anni.
Altrettanto regolarmente, la sottoscritta qualche mese prima parte, munita di cappello e frusta, alla ricerca del regalo che deve essere rigorosamente...come posso dire...intangibile; questo si deve principalmente al fatto che tutto ciò che è tangibile ella già lo possiede (o, se non lo possiede, le sta arrivando per corriere), quindi regalarle un oggetto diventa un'impresa a dir poco disperata. Qualche anno fa, giunta alla conclusione che ogni mio tentativo tangibile-oriented era inevitabilmente destinato al fallimento, mi sono convertita all'intangibile con estrema soddisfazione (mia e spero anche sua).
Quest'anno la ricerca era stata inizialmente deludente e irta di ostacoli, nonostante le innumerevoli ricerche sul web, pareva non esserci il barlume di un musical/concerto che non fosse a Milano, Roma o Canicattì. La soluzione è arrivata sulle ali di un colpo di scena: la diretta interessata mi ha accennato che le sarebbe piaciuto andare a Firenze a vedere Morrissey in concerto e io, rapida come la folgore ho comprato due biglietti per il concerto dell'11 luglio alla Cavea del Teatro dell'Opera.
Lasciamo da parte i dettagli logistici e concentriamoci sul giorno in questione: siamo arrivate a Firenze e abbiamo parcheggiato, incredibilmente, a neanche 500 metri dal luogo del concerto; anche dopo essere scesa dalla macchina ho continuato a guardarmi intorno per un pezzo, temendo che ci fosse un motivo se questi posti macchina gratuiti erano ancora liberi, tipo che avevano trovato una mina della Seconda Guerra Mondiale e l'avrebbero fatta brillare a breve; invece niente, mi è toccato rassegnarmi a questa botta di fortuna e portarmi, seppur con una certa titubanza, verso l'ingresso dell'arena.

Il procedimento per entrare era un po' lungo: c'era un primo punto in cui verificavano che tu avessi il voucher e solo in quel caso ti permettevano di proseguire verso l'area ritiro biglietti. Una volta entrata in possesso dell'ambito talloncino, potevi dirigerti ai piedi della scalinata che portava all'arena e lì altri quattro omoni della security ti avrebbero finalmente strappato il biglietto.
Erano circa le 19 e noi si aveva un po' fame per cui, appena ritirato il biglietto, abbiamo pensato di uscire e andare a mangiare un panino; il problema era che i biglietti non erano numerati e tardando si rischiava di andare a finire nei posti dei reietti, quelli nell'angolo in alto dietro il mixer dove, se il fonico è capellone, non vedi praticamente una mazza. Ci siamo rivolte agli omoni ai piedi della scalinata chiedendo se in cima ci fosse un bar e, ottenendo una risposta positiva, abbiamo deciso che per una volta potevamo anche tirare dalla finestra una vagonata di euri per un paio di panini  a prezzo d'oro nel bar ufficiale. Si vive una volta solo, giusto?
A quel punto ci siamo avviate lungo la scalinata che portava all'ultimo ingresso, quello definitivo. Mentirei se dicessi che l'ascesa è stata piacevole; immaginate il caldo africano di Firenze in luglio, la stanchezza e la sete di due ore di macchina e, come ciliegina sulla torta, aggiungete una scalinata di quelle lunghissime che sembrano senza fine. Per un attimo mi è tornata in mente la gita di quinta elementare quando la maestra Egle ci portò nella sua città natale, Trieste e, già che c'era, ci fece visitare quel luogo ameno che è il cimitero militare di Redipuglia. Il ricordo di quella scalinata non mi abbandonerà facilmente, mi dicono che coi traumi capita così.
Raggiunta finalmente la vetta, la prima fermata è stata il bar e immaginate lo sgomento quando ci siamo accorte che trattavasi di una roba messa su alla buona per cui scorreva birra a profusione, con un po' d'impegno potevi ottenere acqua e cocacola ma l'unico cibo solido in vendita erano le patatine. Panico! Dovevamo fare qualcosa, non si può mica andare avanti di patatine per una sera intera, o meglio, puoi anche tentare ma poi muori di sete perché col caldo che fa sudi come una fontana e se oltretutto l'unica cosa che mangi è salatissima, rischi la mummificazione.
Abbiamo rapidamente scelto i posti (centrali davanti al mixer, come da suggerimento dell'esperto), poi la Checca è rimasta a difenderli e io sono uscita a caccia.
Prima di avventurarmi giù dai mille gradini di Redipuglia, forte delle mie precedenti esperienze di maschera ai concerti, mi sono avvicinata a due del servizio security e ho chiesto se mi dovevano fare un timbro o altro per poter rientrare con le vettovaglie; la prima risposta è stata negativa, non era previsto che si uscisse, poi vedendo la disperazione nel mio sguardo sono stati mossi a compassione e uno di loro ha chiamato quelli ai piedi della scalinata dicendo di farmi passare; a quel punto, dopo essermi profusa in ringraziamenti, sono scesa celermente giù da Redipuglia. Arrivata alla base però i security boys, con un voltagabbana degno dei politici più navigati, mi hanno comunicato che non potevo uscire e, nonostante io menzionassi quanto dettomi dal loro collega sulla vetta, sono stati irremovibili.
La risalita su per Redipuglia è stata più lenta (un gradino, una maledizione) ma poco a poco ce l'ho fatta.

Arrivata all'altezza del security man, l'ho ringraziato per aver tentato, concludendo con un purtroppo non è andata. Quando l'uomo ha capito che non mi avevano fatto passare è andato su tutte le furie e ha chiamato giù dicendone di ogni, poi mi ha detto di tornare giù che era tutto sistemato.
Ora, mettetevi un po' nei miei panni: avevo appena percorso due volte Redipuglia, sotto il sole e invano, non è che avessi una gran voglia di ripetere l'esperienza; d'altra parte non avevo neanche una gran voglia di dire al gentilissimo omaccione della security che, dopo tutto quel can can che aveva fatto per me, avevo cambiato idea e preferivo suicidarmi nutrendomi di sole patatine. Insomma, alla fine terza discesa di Redipuglia, sempre sotto il sole e sempre con il dubbio che poi giù non mi facessero uscire. Dabbasso mi hanno guardato un po' male ma mi hanno fatto passare e mi sono avviata verso l'ultimo lontanissimo cancello; francamente ero in uno stato di prostrazione tale che se mi avessero fermato mi sarei messa a piangere lì davanti senza problemi pur di commuoverli e arrivare all'agognato bar.
Una volta raggiunto il famoso agognato bar, sul bancone era praticamente finito tutto, evidentemente l'affamato pubblico del concerto era anche astutissimo e si era fermato prima di entrare, a differenza di certe pipiloche di mia conoscenza. Scartando le piadine di gomma con salumi vari (preferisco vivere), ho scovato due focacce con prosciutto e un paio di croissant vuoti e pure una frolla con crema e frutta che sapevo la sorella avrebbe apprezzato e sono tornata all'ingresso in un batter d'occhio, riuscendo a rientrare senza problemi, se si eccettua la TERZA risalita di Redipuglia che qualche anno di vita me l'ha tolto.
Quando ho raggiunto la vetta, confesso di essermi sentita un po' Messner.
A quel punto, seduta al mio posto con un panino in mano e una bottiglia d'acqua nell'altra, mi sono rilassata e ho iniziato a guardarmi intorno. Non mi dilungo sul luogo, la Cavea, bello, molto bello ma le luci della mia ribalta erano tutte puntate sul pubblico, che riuniva tutto lo spettro di umanità visibile, o quasi. Capigliature in gara con la forza di gravità, oppure domatissime, stile signorina Rottenmeier, magliette stropicciate o vestiti vintage e, inevitabilmente, tatuaggi ovunque.
Assiepati davanti al palco, tutti pressati contro le transenne c'erano i fan, quelli che mica sian qui a pettinar le bambole, noi siam dei fan per davvero, quelli che non si siedono perché la loro distanza dal palco aumenterebbe di un metro e mezzo. E per fortuna che ci sono, così noialtri della plebe che pettina le bambole ci possiamo sedere comodamente e goderci il concerto dietro di loro (che non abbiamo più quindici anni e le ossa si fan sentire).
Dopo il concerto di apertura, opera di Kristeen Young, han calato gli assi e la band è uscita al gran completo: batterista, bassista, tastierista e due chitarristi, oltre ovviamente alla star. La distanza dal palco non era enorme ma sufficiente a farci dubitare dei nostri sensi; a una prima occhiata uno dei chitarristi poteva essere una donna tra le più befane mai viste, oppure un uomo vestito da donna. La Checca, consultata in merito, concordava con me sulla seconda ipotesi però questo poneva tutta una serie di interrogativi senza risposta: una scommessa persa? Un vile ricatto? Un trauma cranico con conseguente sdoppiamento di personalità? Mistero.
Di tanto in tanto, con tutte quelle luci in faccia che mi ostacolavano la vista, la possibilità che quella fosse semplicemente la donna più brutta del mondo faceva capolino ma veniva immediatamente spazzata viadal soggetto in questione che si toglieva le scarpe (i tacchi, anche se bassi, se non sei abituato dopo un po' fanno male), muoveva qualche passo con la grazia dell'orso Yogi ecc. L'unica cosa che realmente mi disturbava era che trovavo quel viso stranamente familiare; ci ho dovuto pensare un po' ma alla fine ho capito: da dove ero io sembrava la mamma della Banda Fratelli, i cattivi dei Goonies. 
I chitarristi cambiavano chitarra quasi a ogni pezzo (Mrs. Fratelli perlomeno, il suo collega spesso non l'ho notato, ero ipnotizzata dalla signora) ma anche in questo caso la differenza tra i due era evidente: mentre uno afferrava virilmente la chitarra che gli porgevano e la imbracciava, l'altra sporgeva in fuori la testa tenendo le braccia lungo il corpo e si lasciava infilare la chitarra come una miss a cui infilano la fascia. 
Nonostante la megera rubasse spesso la scena ai colleghi della band, batterista riusciva comunque a farsi notare, circondato com'era da un armamentario che sembrava urlare alla folla neanch'io son qui a pettinar le bambole. Non so se anche tra i batteristi vada di moda fare a gara a chi ce l'ha più grosso ma in questo caso lui avrebbe vinto; a parte il gong che fa sempre la sua porca figura, aveva un tamburone enorme (l'esperto mi ha detto trattarsi di una grancassa da banda ma tamburone suona molto meglio) che percuoteva con inesauribile entusiasmo.
Di tanto in tanto dalle file dei superfan, un eroe si lanciava in un esperimento di stage diving alla rovescia, nel tentativo di raggiungere l'amato Morrissey, tentativo che veniva puntualmente sventato dagli energumeni della security che quella sera il loro stipendio se lo sono guadagnato eccome!
Alla fine, dopo il terzo tentativo infruttuoso, ho visto Morrissey dire qualcosa a uno degli omoni nerboruti, il quale ha aperto un varco e fatto passare uno dei superfan; questo è scattato in avanti e ha chiuso Morrissey in un abbraccio improvviso e tenerissimo, per poi tornare subito al suo posto dietro le transenne. Da vedere è stato molto bello e anche credo indicativo del rapporto stretto che il cantante ha con i suoi fan: per tutto il concerto si è sporto in avanti di tanto in tanto per stringere mani e farsi toccare dal pubblico in delirio, tutto con estrema tranquillità e naturalezza. E ovviamente il pubblico ha risposto con grande calore, il pavimento ha tremato quasi ininterrottamente per i 90 minuti del concerto.
Devo ammettere che per me il momento più difficile da gestire è stato quando hanno suonato Meat is murder, accompagnati da un video che mostrava le mille torture che gli animali subiscono per mano nostra ma, dato che immagino l'obiettivo fosse proprio farti star male, dal loro punto di vista è stato sicuramente un pezzo molto efficace.
L'unico neo del concerto è stata proprio la sua conclusione che ha lasciato francamente tutti di stucco: a un certo punto tutta la band è scesa rapidamente dal palco senza neppure congedarsi dal pubblico, come normalmente ci si aspetterebbe in questi casi. Inizialmente mi sono chiesta se non ci fosse un galateo dei suoi concerti che magari io ignoravo ma, quando si sono accese le luci e i tecnici hanno iniziato a smontare, la gente si guardava intorno perplessa, era evidente che eravamo rimasti tutti spiazzati.
Durante la discesa lungo la scalinata abbiamo valutato le possibili spiegazioni (malore, calo di voce, diarrea fulminante) ma poi abbiam lasciato perdere: in fondo era stato un gran bel concerto, non ci restava altro da fare che tornare al nostro parcheggio, scandalosamente vicino e gratuito, e dirigere la nostra prora fortunata verso casa.


P.S. Questo articolo è stato scritto per la rubrica L'Angolo dell'Estrema Riluttanza su Stonehand Ex Press

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